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Questo spazio è pensato anche per favorire la condivisione delle esperienze personali: potrete raccontare il vostro percorso e scoprire come altri candidati stanno affrontando questa opportunità. Vi invitiamo a partecipare attivamente, a rispettare gli altri membri della community e a mantenere un tono di dialogo collaborativo e positivo.

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Ora et Programma

Di Nicolini Massimiliano

ORA ET PROGRAMMA
Il codice come preghiera, la tastiera come via di contemplazione

Nell’epoca in cui l’intelligenza artificiale riscrive i codici della conoscenza e la realtà digitale permea ogni ambito dell’esperienza umana, si rende urgente una riflessione sul senso profondo del lavoro intellettuale e, in particolare, su quello degli sviluppatori di software. Nasce così il concetto di "Ora et Programma", una formula che riecheggia l’antico motto benedettino "Ora et Labora", trasportandolo nel cuore del XXI secolo, dove il lavoro non è più soltanto manuale ma sempre più spesso immateriale, astratto, algoritmico. In questo contesto, l’unione tra preghiera e programmazione non rappresenta una semplice provocazione culturale, ma una possibile via per ritrovare il fondamento umano, etico e spirituale dell'agire tecnico. È un invito a vivere la tecnologia non solo come mezzo, ma come occasione di trasformazione personale e collettiva.

Il lavoro dello sviluppatore come esercizio dello spirito

Dietro lo schermo retroilluminato, nella quiete apparentemente sterile di un ambiente di sviluppo, si cela un'attività che può assumere tratti profondamente spirituali. Ogni programmatore è chiamato a un percorso che unisce disciplina e creatività, rigore e visione, solitudine e servizio. Come un monaco medievale chino sul manoscritto, lo sviluppatore moderno esplora sequenze di simboli, cercando ordine nel caos, armonia tra i bit, eleganza nel funzionamento invisibile. Questo lavoro, spesso silenzioso, è in realtà profondamente relazionale: ogni funzione scritta, ogni sistema progettato, è destinato a interagire con altri, a risolvere problemi, a sostenere processi vitali. Non diversamente dalla preghiera, il codice è un linguaggio che cerca di interpretare e comunicare l'invisibile attraverso il visibile, traducendo intuizioni e logica in architetture che generano impatto reale.

Nell’atto del programmare c’è un movimento interiore che richiama quello della meditazione: concentrazione prolungata, ascolto del silenzio, umiltà davanti all’errore. Il debugging diventa una forma di esame di coscienza; il refactoring un esercizio ascetico di purificazione del superfluo; il commit una promessa di fedeltà all’ordine che si sta costruendo. Ogni modifica al codice, ogni scelta tra soluzioni possibili, è anche un atto di responsabilità. Così il lavoro non è più solo produzione, ma contemplazione attiva, un dialogo silenzioso con una logica superiore che guida, ispira e talvolta sfugge. La tastiera può diventare come un rosario digitale: strumento per ordinare, pregare, costruire senso.

Programmare come forma di preghiera laica

“Ora et Programma” non significa sostituire la preghiera con il codice, ma santificare il codice attraverso l’intenzione del cuore. Un codice scritto con purezza di scopo, volto a migliorare la vita, a ridurre la sofferenza, a costruire ponti tra gli uomini, diventa esso stesso un atto spirituale. Anche nel laico più incallito, l’atto di costruire qualcosa che funzioni bene per gli altri, che sia stabile, sicuro, bello, racchiude un seme di sacralità. Ogni stringa di codice diventa un mattone nel tempio invisibile dell’intelligenza collettiva. La dignità di questo lavoro non sta solo nella sua utilità, ma nel gesto libero e cosciente che lo anima.

In questo contesto, il “programmare” si emancipa dal semplice ambito tecnico per entrare in quello etico e vocazionale: chi scrive software per la cura, per l’educazione, per la pace, compie un gesto che ha conseguenze spirituali. Chi programma per dominare, manipolare, sorvegliare, compie invece l’opposto. Lo spirito del codice diventa allora una questione centrale per la nostra civiltà. Ogni progetto informatico dovrebbe cominciare con una domanda spirituale: che tipo di umanità vogliamo generare attraverso questo strumento?

Dalla regola di San Benedetto ai team agili

Nel monastero, la Regola imponeva momenti cadenzati di lavoro, di lettura e di preghiera. Il tempo era ordinato, scandito, orientato alla fioritura dell’anima attraverso la stabilità della vita quotidiana. Oggi, in un contesto secolarizzato e frenetico, serve un nuovo ritmo che ricomponga le fratture tra vita personale e lavoro, tra tecnologia e anima. “Ora et Programma” può diventare un paradigma per costruire team agili ma consapevoli, ambienti dove il lavoro del programmatore non sia sfruttato né alienato, ma custodito come dono e come responsabilità.

Il daily stand-up può diventare un momento non solo di coordinamento ma anche di condivisione umana. Le retrospective non devono essere solo analisi delle performance, ma anche occasioni per chiedersi “perché stiamo facendo questo?”. E forse ogni sprint può cominciare con un momento di silenzio, in cui ciascuno ritrovi il filo del senso prima ancora di scrivere la prima riga di codice. Come in un cenobio digitale, anche il team dev può riscoprire la forza del rito, del ritmo e della cura reciproca.

Una nuova mistica del digitale

Serve oggi una nuova mistica, un’etica della presenza, in cui chi lavora nel software sia consapevole del potere trasformativo del proprio operare. Non si tratta di spiritualizzare artificialmente la tecnologia, ma di ricordare che ogni forma di costruzione umana porta con sé una dimensione che va oltre la tecnica. Ogni riga di codice ha conseguenze, ogni architettura può potenziare o limitare la libertà dell’altro. In questo, “Ora et Programma” non è solo un invito poetico, ma una bussola morale: prega e programma, cioè cerca il bene e costruiscilo nel concreto, bit dopo bit.

Perché nel codice c’è ordine, e nell’ordine può nascere la pace. La costruzione del software può diventare un laboratorio spirituale dove l’umanità riflette se stessa. E ogni gesto che unisce mente e spirito è già una forma di preghiera.

Le difficoltà e le resistenze di un’alleanza incompiuta

Nonostante l’alto valore simbolico e umano di un’unione tra spiritualità e programmazione, molti ostacoli rendono oggi questo cammino particolarmente impervio. Innanzitutto vi è una profonda frattura culturale: nel mondo tecnologico domina un paradigma meccanicistico, orientato all’efficienza, alla performance, al risultato immediato. Il tempo del raccoglimento, della lentezza, dell’ascolto interiore appare controcorrente, inefficiente, fuori mercato.

A ciò si aggiunge un pregiudizio diffuso verso la spiritualità, spesso ridotta a superstizione o sentimentalismo, mentre in realtà essa è il fondamento di ogni ricerca autentica di senso. In molti ambienti tecnologici, persino pronunciare parole come “interiorità”, “sacralità”, “etica del bene” genera imbarazzo o derisione, come se si tradisse la neutralità fredda della scienza. Questo clima rende difficile costruire linguaggi comuni tra sviluppatori e guide spirituali, tra filosofi e ingegneri.

Un’altra resistenza potente è la logica dell’urgenza perpetua: chi programma oggi è spesso sottoposto a ritmi disumani, sprint infiniti, aggiornamenti continui. Non c’è spazio per la contemplazione perché “non c’è tempo”. Ma un codice scritto senza tempo è spesso anche un codice senza anima, né bellezza.

A tutto ciò si somma una difficoltà interna alla stessa Chiesa: la diffidenza verso il mondo tecnologico, talvolta vissuto come luogo di secolarizzazione e disumanizzazione. Ma il limite più profondo e strutturale è un altro: la tendenza della Chiesa a cercare soltanto tra i suoi religiosi le voci autorevoli in materia di scienza, intelligenza artificiale o programmazione, ignorando spesso il fatto che raramente i religiosi posseggono la competenza necessaria per affrontare questi temi con rigore. Questo atteggiamento porta a una autoreferenzialità sterile, che taglia fuori migliaia di laici profondamente spirituali, professionisti del digitale che vivono ogni giorno il conflitto tra etica e codice, tra vocazione e tecnologia. La Chiesa, invece di formare alleanze con questi uomini e donne di frontiera, spesso li guarda con sospetto, li lascia soli, o li riduce a meri “esperti esterni” non coinvolti nel cuore del discernimento.

Se la Chiesa vuole davvero abitare il mondo della tecnica, non può limitarsi a leggere encicliche o a parlare di "algoretica" nei convegni: deve fare spazio ai programmatori, ai data scientist, agli architetti del virtuale, come nuovi monaci digitali, nuovi artigiani del Verbo.

Azioni per avvicinare spiritualità e programmazione

Creare spazi di lavoro che custodiscano il silenzio e la concentrazione interiore

In un’epoca segnata dalla sovrastimolazione digitale, creare ambienti di lavoro che favoriscano il silenzio e la profondità può diventare un gesto rivoluzionario, capace di restituire al lavoratore digitale lo spazio per l’ascolto interiore e per un’azione più consapevole. La tecnologia ha accelerato il ritmo delle attività quotidiane, trasformando spesso l’ambiente di lavoro in un luogo di iperconnessione dove l’interruzione continua mina la qualità dell’attenzione e impedisce qualsiasi immersione profonda.

In questo contesto, progettare spazi sobri, acusticamente protetti, illuminati in modo naturale e dotati di arredi essenziali, può generare un contesto rigenerativo. L’introduzione di zone di concentrazione prive di distrazioni digitali, di ambienti meditativi accessibili liberamente dai membri del team, o la realizzazione di piccole "celle digitali" nei coworking dove le persone possano volontariamente disconnettersi, rappresentano non solo innovazioni ambientali ma anche atti simbolici di riumanizzazione del lavoro.

L’adozione di pause consapevoli, anche brevi, scandite durante la giornata con il solo scopo di respirare, ascoltare, orientarsi, può diventare una forma laica di preghiera o di centratura spirituale. Tali scelte contribuiscono a formare una cultura aziendale della presenza e della qualità, nella quale il valore non viene più misurato solo in output, ma anche in profondità, intenzione e armonia. In definitiva, ambienti così pensati aiutano i team a non frammentarsi nel fare, ma a riconoscersi nell’essere: essere attenti, essere presenti, essere connessi – non solo ai server, ma a ciò che conta davvero. a ripensare la qualità della presenza prima ancora della produttività.

Introdurre la formazione filosofico-spirituale nei percorsi per sviluppatori

L’educazione tecnica è spesso orfana di una formazione umanistica. Nella maggior parte dei percorsi di studio per sviluppatori, ingegneri del software o esperti di dati, manca quasi completamente una riflessione profonda sul significato etico, antropologico e spirituale del proprio operato. Eppure, il codice che scriviamo modella relazioni, economie, perfino coscienze. Introdurre corsi di filosofia della tecnologia, etica dell’algoritmo, spiritualità del lavoro e storia del pensiero critico può colmare questo vuoto, fornendo strumenti che non sono accessori, ma centrali per una nuova cittadinanza digitale.

Non si tratta di prediche, ma di percorsi educativi trasversali che aiutano a leggere il senso delle proprie azioni, a comprendere le conseguenze sistemiche di una riga di codice, a dare parole alla propria inquietudine, che troppo spesso resta muta o si rifugia nella frustrazione. L’educazione umanistica non deve essere concepita come un’appendice, ma come la radice profonda di ogni innovazione responsabile. Solo chi si interroga sul fine, non solo sul mezzo, diventa co-creatore consapevole, capace di orientare lo sviluppo tecnologico secondo criteri di giustizia, bellezza e compassione.

In questo scenario, le aule accademiche e i laboratori tecnici possono trasformarsi in spazi di vocazione, in fucine di discernimento, dove il sapere non è solo trasmissione ma anche ispirazione. Un luogo dove si insegna non solo a costruire software, ma a diventare uomini e donne capaci di abitare la complessità con animo integro, con sguardo lucido e cuore acceso.

Codice etico come carta spirituale del team

Ogni gruppo di sviluppo può dotarsi di un proprio codice etico che non sia solo una formalità aziendale, ma una carta dei principi ispirata al bene comune e alla responsabilità sociale. Questo codice può contenere non soltanto indicazioni operative, ma dichiarazioni di visione e impegno che definiscono cosa il team intende promuovere e cosa, per scelta consapevole, decide di non supportare. Può esprimere, ad esempio, il rifiuto di lavorare su software per la sorveglianza di massa, o l'intenzione di orientare le proprie competenze verso progetti a beneficio della salute, dell'educazione, dell'inclusione.

Un simile documento diventa un patto interno, un manifesto identitario, capace di rafforzare la coesione del gruppo, la chiarezza delle scelte e il senso profondo dell'agire. Non deve essere pensato come qualcosa di statico, ma come un organismo vivo, da rileggere, discutere, aggiornare periodicamente in funzione delle trasformazioni del mondo e delle coscienze. In questo modo, il codice etico si configura come un vero e proprio spazio spirituale condiviso: un altare laico dove si rinnova l'intento di servire il bene attraverso il lavoro.

Questa pratica trasforma il team in una comunità etica, capace di scegliere e non solo di eseguire, di interrogarsi prima di ogni commit, di sentire il peso e la bellezza del proprio operato. Ed è proprio in questa capacità di discernimento continuo che il codice, da strumento tecnico, si fa veicolo spirituale, incarnazione di valori, manifestazione di un'etica incarnata nella logica dei sistemi e nell'estetica dell'architettura software.

Incorporare pratiche di meditazione e consapevolezza nel ciclo di sviluppo

La mindfulness non è una moda, ma una disciplina antica che oggi può trovare nuove applicazioni nel mondo della tecnologia. È una via millenaria per coltivare la presenza, l'equanimità, l'ascolto profondo, e può essere pienamente integrata nei contesti digitali senza perdere la sua autenticità. Introdurre pratiche di consapevolezza all’interno del ciclo di sviluppo – anche solo con respiri guidati tra uno sprint e l’altro – permette di ridurre lo stress, aumentare la lucidità, prevenire il burnout e riconnettersi con lo scopo del proprio lavoro, trasformando così la performance in partecipazione.

La consapevolezza può diventare un filo rosso che attraversa tutta la giornata lavorativa: dall'apertura del computer fino alla revisione del codice, ogni fase può essere illuminata da un'intenzione chiara e da una postura interiore orientata alla cura. Gruppi di ascolto, camminate meditative, micro-ritiri interni al team, sessioni di journaling digitale, esercizi di silenzio guidato o pratiche contemplative condivise sono tutte forme che favoriscono una spiritualità incarnata nel quotidiano digitale. Esse non si sovrappongono al lavoro: lo purificano, lo rendono essenziale, lo restituiscono al suo vero significato.

Incorporare la mindfulness nel lavoro del programmatore è anche una forma di ecologia interiore: si tratta di proteggere non solo i sistemi informatici ma anche le menti e i cuori di chi li crea. È un modo per ricordare che ogni algoritmo nasce da una coscienza, e che la qualità dell'intenzione con cui si programma può incidere profondamente sulla qualità della società che quel codice andrà a costruire.

Progettare software spirituali

Non mancano app di meditazione o strumenti per la preghiera, ma è ancora raro trovare software che nascano da un impianto spirituale autentico, cioè da una riflessione esistenziale, comunitaria e trascendente realmente incarnata nel processo di sviluppo. Progettare ambienti virtuali di ascolto profondo, applicazioni che aiutano a rileggere la vita in chiave simbolica e narrativa, spazi digitali per la contemplazione o la riflessione condivisa non è solo un compito tecnico, ma un'opera d'arte spirituale. È questo un campo immenso da esplorare, dove tecnologia e trascendenza possono fondersi generando esperienze trasformative.

Un vero software spirituale non si limita a fornire funzionalità utili, ma diventa un contenitore di senso, una soglia tra mondi, uno strumento che educa alla presenza, alla consapevolezza, alla compassione. Può essere un diario digitale che suggerisce domande interiori invece che risposte automatiche, un ambiente immersivo che stimola il raccoglimento e non l’evasione, una piattaforma dove persone di fedi diverse possano condividere silenzio e preghiera senza parole.

Chi ha competenze tecniche e sensibilità spirituale – figure rare ma fondamentali – ha oggi una responsabilità storica: creare strumenti inediti che avvicinano le persone al silenzio, al respiro, alla luce interiore. Tali strumenti, se progettati con rispetto e profondità, possono diventare i nuovi templi del tempo presente: non luoghi di idolatria digitale, ma spazi per tornare a sé, per ascoltare il mistero, per abitare con pienezza il mondo.

Dare valore al tempo e alla lentezza nel ciclo del codice

L’ossessione per la velocità genera superficialità. Nella cultura digitale contemporanea, dominata dal culto del rilascio continuo, della competizione permanente e della crescita esponenziale, il valore della lentezza è spesso disprezzato o frainteso come inefficienza. Eppure, la lentezza è lo spazio in cui matura il pensiero profondo, si sedimenta l’intuizione, si affina la visione. Reintrodurre la lentezza nel ciclo dello sviluppo software significa restituire tempo alla riflessione, dare dignità all’attesa, permettere all’ascolto profondo del problema di emergere prima ancora che si tenti di risolverlo.

Ogni fase del ciclo produttivo, dal design all’implementazione, dalla revisione al rilascio, può diventare occasione per coltivare attenzione, gratitudine, cura. La lentezza non è improduttiva: è il tempo del senso, il tempo in cui ci si ferma per chiedersi non solo "come" fare una cosa, ma "perché" la si fa. Può significare prendere un’intera giornata per contemplare un’architettura prima di scriverla, o sospendere un rilascio per ascoltare le obiezioni di coscienza del team. È un tempo che custodisce l’umano.

Introdurre giorni di “revisione spirituale del codice”, momenti di sospensione creativa o tempi di vuoto consapevole – in cui si disconnette per lasciare spazio all’intuizione, alla visione e al respiro – può restituire profondità, bellezza e integrità al lavoro del programmatore. In questi momenti, si riscopre che scrivere codice non è solo una funzione meccanica, ma un atto che può educare all'umiltà, alla precisione, all'empatia e persino alla meraviglia. La lentezza diventa così il linguaggio del rispetto: rispetto per ciò che si costruisce, per chi lo userà, e per chi, ogni giorno, silenziosamente, lo scrive.

Riscoprire la ritualità del lavoro

Ogni attività umana ha bisogno di riti per non diventare automatismo. I riti, infatti, sono le strutture invisibili che donano senso al tempo, marcano le soglie, ci fanno attraversare i passaggi della giornata e della vita con consapevolezza. Nel mondo del lavoro digitale, dominato da flussi costanti e indifferenziati di attività, ripristinare la ritualità significa restituire profondità e sacralità al quotidiano. Anche nel contesto altamente tecnologico in cui operano gli sviluppatori, piccoli gesti simbolici possono ridare valore al lavoro, trasformandolo da sequenza meccanica a gesto consapevole.

Accendere una candela all’inizio della giornata, posare lo sguardo in silenzio sul proprio ambiente prima di iniziare a digitare, iniziare i meeting con un minuto di raccoglimento, chiudere la settimana con una parola di gratitudine condivisa o con un breve momento di risonanza tra colleghi: sono tutti atti semplici ma potenti. Essi riaccendono la coscienza del tempo, della comunità e della propria interiorità. Ogni rituale, anche il più discreto, ricorda che il nostro fare è abitato da un senso, che ogni progetto porta con sé una chiamata e che ogni codice scritto è anche una forma di testimonianza.

Il lavoro torna così ad avere un ritmo, una memoria, un cuore. Non è più solo uno spazio di produzione, ma uno spazio di presenza. Ritrovare la ritualità significa anche restituire al lavoro il suo statuto di vocazione: una forma di partecipazione al mondo, di creazione condivisa, di espressione spirituale. E in questo orizzonte, anche la tastiera può diventare un altare, anche il gesto di premere “invio” può essere un’offerta, anche una pull request può essere una benedizione.

Avvicinare spiritualità e programmazione non è un’operazione forzata, ma un ritorno a una verità profonda: ogni attività umana, quando è fatta con coscienza e amore, diventa sacra. In questo senso, “Ora et Programma” è un invito a non perdere il contatto con l’anima, anche in un mondo fatto di codice, compilatori e framework. Il programmatore moderno può diventare un monaco del nuovo millennio, non nel senso della rinuncia al mondo, ma come custode silenzioso del bene comune, capace di trasformare ogni linea di codice in una forma di preghiera, ogni bug risolto in una piccola redenzione, ogni algoritmo giusto in una carezza al mondo. La Chiesa, se vuole davvero abitare il tempo presente, deve uscire dal chiostro dell’autoreferenzialità e riconoscere che forse, oggi, la sua teologia più viva nasce anche dietro uno schermo.