
Benvenuti nel Forum della Fondazione Olitec. Questo spazio è stato creato per promuovere la trasparenza e facilitare la comunicazione tra la Fondazione Olitec e tutti coloro che desiderano entrare a far parte del nostro team, in particolare per il ruolo di Sales. Il nostro forum è uno strumento di dialogo aperto e costruttivo dove i candidati possono porre domande, condividere esperienze e ottenere risposte dirette sui vari aspetti del processo di selezione e sulle opportunità di carriera offerte dalla Fondazione.
All’interno del forum troverete topic dedicati ad argomenti specifici su cui potrete approfondire informazioni relative al ruolo, al processo di selezione e alla cultura aziendale della Fondazione Olitec. Inoltre, avrete la possibilità di caricare le vostre domande e consultare le risposte fornite ad altri quesiti posti dai candidati, creando così una rete di informazioni condivisa e trasparente.
Questo spazio è pensato anche per favorire la condivisione delle esperienze personali: potrete raccontare il vostro percorso e scoprire come altri candidati stanno affrontando questa opportunità. Vi invitiamo a partecipare attivamente, a rispettare gli altri membri della community e a mantenere un tono di dialogo collaborativo e positivo.
La misura del silenzio nella scienza
Cita da Fondazione Olitec su 18 Ottobre 2025, 12:15 pmScienziati fanno a gara a depositare pubblicazioni e su quello oggi il mondo accademico basa la capacità del ricercatore, peccato che molti si dimenticano delle persone.
Viviamo in un tempo in cui la scienza è diventata rumorosa. Gli algoritmi che regolano la reputazione dei ricercatori, i motori di valutazione delle università e gli indici bibliometrici globali hanno trasformato il sapere in una sorta di gara permanente, in cui chi pubblica di più sembra valere di più. È l’epoca dell’“impact factor”, dove la visibilità sembra sinonimo di valore e il numero di pubblicazioni viene assunto come misura dell’intelligenza. Ma la verità scientifica — come quella artistica o spirituale — non nasce dal rumore, bensì dal silenzio.
Essere scienziato non significa produrre incessantemente, ma pensare profondamente. La scienza autentica non si sviluppa per accumulo di articoli, ma per rivoluzioni di pensiero. Ogni grande trasformazione della conoscenza è nata da un atto di solitudine: Newton che osserva la mela, Einstein che immagina di cavalcare un raggio di luce, Rosalind Franklin che fissa una fotografia di DNA senza ancora sapere di aver colto il segreto della vita. La scienza vera abita nell’intervallo tra un’intuizione e la sua dimostrazione, in quello spazio interiore in cui la mente impara ad ascoltare ciò che ancora non ha nome.
La mancanza di pubblicazioni, dunque, non è necessariamente un segno di povertà intellettuale. Può essere, al contrario, la traccia di un percorso più autentico, meno immediatamente traducibile nei linguaggi standardizzati della produzione accademica. Alcuni scienziati tacciono perché stanno costruendo. Stanno verificando, sbagliando, cercando una forma rigorosa per un’idea che sentono vera, ma che non vogliono ancora esporre al mondo senza averla resa inoppugnabile. In un sistema dominato dalla velocità, il silenzio può diventare una forma di resistenza etica.
Il rischio del nostro tempo è quello di confondere il valore con la visibilità. Pubblicare è certamente parte del mestiere scientifico, ma non può diventare la sua unica metrica. La scienza è un atto collettivo di ricerca della verità, non un torneo di produttività. Ogni pubblicazione dovrebbe essere una pietra posta con cura in un edificio condiviso, non un mattone gettato in fretta per salire di un piano nelle classifiche. In questo senso, uno scienziato con poche ma grandi pubblicazioni può valere più di cento che producono incessantemente senza dire nulla di nuovo.
Ciò che davvero misura la bravura di uno scienziato non è la quantità di parole che scrive, ma la qualità del mondo che modifica. Il valore si manifesta quando un’idea cambia un paradigma, risolve un problema, o ispira una nuova generazione a guardare diversamente la realtà. È lì che la scienza diventa arte, e l’artigiano della conoscenza diventa maestro.
Il silenzio di uno scienziato non è vuoto, ma attesa gravida di senso. È il tempo in cui il pensiero si sedimenta, in cui si riconosce la propria ignoranza e si accetta che la verità non appartiene a chi parla più forte, ma a chi ascolta più in profondità. In un mondo che misura tutto, la grandezza autentica resta ciò che sfugge alla misurazione.
La scienza come dovere verso l’altro
L’idea centrale è semplice e radicale: l’intelligenza non è un merito privato ma una responsabilità pubblica. Una grande mente vale nella misura in cui migliora la vita altrui: riduce sofferenza, crea possibilità, accende dignità. Questa è la “legge morale” che precede le metriche: l’utilità non come opportunismo, ma come beneficenza epistemica (mettere il proprio sapere al servizio del bene comune). In quest’ottica, la pubblicazione non è un fine; è uno dei tanti mezzi per trasferire conoscenza dove serve.
Come siamo arrivati a misurare tutto con gli articoli
L’equazione “più articoli = più valore” è recente. Fino al XIX secolo la circolazione del sapere avveniva per trattati (Newton pubblica i Principia, non short papers), corrispondenze e accademie (Galileo scrive e polemizza con lettere pubbliche), lezioni pubbliche (Faraday alla Royal Institution), brevetti e prototipi (Edison e Tesla), manuali d’arte e d’officio (Leonardo). Esistevano riviste sin dal Seicento, ma l’habitus della carriera accademica fondata su indicatori nasce davvero nel XX-XXI secolo per tre ragioni:
- l’esplosione del numero di ricercatori e la necessità di criteri comparabili;
- l’industrializzazione dell’editoria scientifica (riviste, peer review standardizzata, indicizzazione);
- la competizione per fondi e posizioni che ha trasformato la pubblicazione in valuta di scambio.
Questa infrastruttura ha utilità (filtri di qualità, tracciabilità), ma quando diventa totale scambia la verità con la visibilità.I “grandi” non pubblicavano per la vetrina: producevano mondo
Se guardiamo la genealogia dell’impatto, la traiettoria è chiara:
- Trattati che rifondano campi: un singolo libro può valere una carriera di papers quando cambia il paradigma e l’uso del mondo.
- Dimostrazioni pubbliche e prototipi: l’elettricità di Faraday o le macchine di Tesla convincono perché funzionano davanti alle persone.
- Brevetti e standard: la conoscenza diventa uso quando si incarna in procedure, strumenti, norme tecniche che altri possono adottare.
- Didattica e divulgazione: rendere accessibile ciò che è complesso è un’opera di bene civile, non una semplificazione vile.
In tutti questi casi il criterio non è “dove ho pubblicato”, ma chi è cambiato grazie a quella conoscenza: contadini che coltivano meglio, medici che curano meglio, artigiani che lavorano meglio, studenti che capiscono di più.
Perché “essere utili” non è anti-accademico ma iper-scientifico
La scienza è un bene relazionale: esiste davvero solo quando è condivisa, replicata, messa in opera. Sostituire la gara di citazioni con la gara di vita migliorata non è populismo: è riportare la ricerca alla sua natura di pratica pubblica della verità. L’utilità non degrada la teoria, la svela: una teoria è buona se regge alla prova del mondo e restituisce valore a chi la usa.
Cinque criteri concreti per misurare l’impatto (al posto del feticcio bibliometrico)
- Adozione reale: quante persone/enti usano quel metodo, quel software, quel protocollo?
- Effetto su salute e ambiente: malattie evitate, errori ridotti, emissioni risparmiate, ore-uomo e kWh tagliati.
- Trasferibilità: quante comunità diverse hanno potuto riutilizzare il risultato senza “permesso”?
- Accessibilità: documentazione chiara, licenze e costi che non escludono i più deboli.
- Capacità generativa: il lavoro ha aperto strade, formato persone, creato altre innovazioni?
Questi criteri portano il focus da quanto parlo a quanto trasformo.
Due modelli operativi per la scienza “utile al prossimo”
1. Scienza orientata al bene comune (RRI 2.0): definire obiettivi con le comunità (ospedali, scuole, comuni), co-progettare soluzioni, validare in campo, rilasciare risultati in formati riutilizzabili (manuali, kit, API, librerie).
2. Living labs e “Scienziati di Strada”: portare laboratorio, strumenti e competenze dove stanno i problemi; testare iterativamente, formare sul posto, lasciare competenze e strumenti in eredità. Qui l’articolo nasce dopo che la cosa funziona, non prima.Le obiezioni (e le risposte)
- “Ma senza pubblicazioni, come garantiamo qualità?”
Con replicabilità pubblica, protocolli aperti, dataset verificabili, audit indipendenti: la qualità si difende meglio quando chiunque può rifare l’esperimento.- “Le carriere richiedono numeri oggettivi.”
Cambiamo i numeri: KPI di adozione, standard recepiti, benefici misurabili, progetti portati in produzione. Contano anche i papers, ma non solo.- “L’utilità rischia il tecnicismo.”
È l’opposto: utilità implica etica (chi beneficia? chi resta indietro?), linguaggio comprensibile, responsabilità.Etica dell’utilità: beneficenza, giustizia, generazioni future
Essere utili è una triade:
- Beneficenza: ridurre sofferenza e sprechi informativi;
- Giustizia: distribuire accesso e competenze, non solo prodotti;
- Responsabilità intergenerazionale: soluzioni che non scaricano costi su chi verrà dopo (energia, privacy, ambiente).
Cosa cambia per uno scienziato oggi (checklist operativa)
- Scrivere per l’uso: guide, esempi, video brevi, “ricette” operative accanto al paper.
- Rilasciare strumenti: codice, modelli, dataset con licenze chiare; issue tracker per chi adotta.
- Misurare impatti: una dashboard che conteggi adozioni, errori evitati, kWh risparmiati, persone formate.
- Co-progettare: pazienti, insegnanti, tecnici e amministratori nel team sin dall’inizio.
- Documentare fallimenti: ciò che non funziona è un dono alla collettività, evita sprechi.
- Pubblicare sì, ma bene: quando serve, su riviste solide o in preprint con materiali replicabili; niente “salami slicing”.
Dal prestigio alla responsabilità
La questione delle pubblicazioni è largamente nostra, figlia della modernità amministrata. I grandi del passato non inseguivano impact factor: inventavano mondo, creando nuove prospettive e sfide per l'umanità. Se riportiamo la scienza al suo scopo — generare bene concreto, conoscenza condivisa e dignità per chi la usa — allora le pubblicazioni tornano al loro posto: strumenti tra gli strumenti, utilizzati per comunicare idee e innovazioni, piuttosto che per accumulare punti in una graduatoria.
La misura di una grande mente non è la bibliografia; è la traccia che lascia nel cammino degli altri, la capacità di ispirare e guidare, trasformando la curiosità in azione e portando alla luce verità che possono migliorare la vita delle persone. Inoltre, è fondamentale ricordare che il vero progresso si misura anche nella qualità delle interazioni e nella capacità di divulgare conoscenza, piuttosto che semplicemente nella quantità di lavori pubblicati.
Scienziati fanno a gara a depositare pubblicazioni e su quello oggi il mondo accademico basa la capacità del ricercatore, peccato che molti si dimenticano delle persone.
Viviamo in un tempo in cui la scienza è diventata rumorosa. Gli algoritmi che regolano la reputazione dei ricercatori, i motori di valutazione delle università e gli indici bibliometrici globali hanno trasformato il sapere in una sorta di gara permanente, in cui chi pubblica di più sembra valere di più. È l’epoca dell’“impact factor”, dove la visibilità sembra sinonimo di valore e il numero di pubblicazioni viene assunto come misura dell’intelligenza. Ma la verità scientifica — come quella artistica o spirituale — non nasce dal rumore, bensì dal silenzio.
Essere scienziato non significa produrre incessantemente, ma pensare profondamente. La scienza autentica non si sviluppa per accumulo di articoli, ma per rivoluzioni di pensiero. Ogni grande trasformazione della conoscenza è nata da un atto di solitudine: Newton che osserva la mela, Einstein che immagina di cavalcare un raggio di luce, Rosalind Franklin che fissa una fotografia di DNA senza ancora sapere di aver colto il segreto della vita. La scienza vera abita nell’intervallo tra un’intuizione e la sua dimostrazione, in quello spazio interiore in cui la mente impara ad ascoltare ciò che ancora non ha nome.
La mancanza di pubblicazioni, dunque, non è necessariamente un segno di povertà intellettuale. Può essere, al contrario, la traccia di un percorso più autentico, meno immediatamente traducibile nei linguaggi standardizzati della produzione accademica. Alcuni scienziati tacciono perché stanno costruendo. Stanno verificando, sbagliando, cercando una forma rigorosa per un’idea che sentono vera, ma che non vogliono ancora esporre al mondo senza averla resa inoppugnabile. In un sistema dominato dalla velocità, il silenzio può diventare una forma di resistenza etica.
Il rischio del nostro tempo è quello di confondere il valore con la visibilità. Pubblicare è certamente parte del mestiere scientifico, ma non può diventare la sua unica metrica. La scienza è un atto collettivo di ricerca della verità, non un torneo di produttività. Ogni pubblicazione dovrebbe essere una pietra posta con cura in un edificio condiviso, non un mattone gettato in fretta per salire di un piano nelle classifiche. In questo senso, uno scienziato con poche ma grandi pubblicazioni può valere più di cento che producono incessantemente senza dire nulla di nuovo.
Ciò che davvero misura la bravura di uno scienziato non è la quantità di parole che scrive, ma la qualità del mondo che modifica. Il valore si manifesta quando un’idea cambia un paradigma, risolve un problema, o ispira una nuova generazione a guardare diversamente la realtà. È lì che la scienza diventa arte, e l’artigiano della conoscenza diventa maestro.
Il silenzio di uno scienziato non è vuoto, ma attesa gravida di senso. È il tempo in cui il pensiero si sedimenta, in cui si riconosce la propria ignoranza e si accetta che la verità non appartiene a chi parla più forte, ma a chi ascolta più in profondità. In un mondo che misura tutto, la grandezza autentica resta ciò che sfugge alla misurazione.
La scienza come dovere verso l’altro
L’idea centrale è semplice e radicale: l’intelligenza non è un merito privato ma una responsabilità pubblica. Una grande mente vale nella misura in cui migliora la vita altrui: riduce sofferenza, crea possibilità, accende dignità. Questa è la “legge morale” che precede le metriche: l’utilità non come opportunismo, ma come beneficenza epistemica (mettere il proprio sapere al servizio del bene comune). In quest’ottica, la pubblicazione non è un fine; è uno dei tanti mezzi per trasferire conoscenza dove serve.
Come siamo arrivati a misurare tutto con gli articoli
L’equazione “più articoli = più valore” è recente. Fino al XIX secolo la circolazione del sapere avveniva per trattati (Newton pubblica i Principia, non short papers), corrispondenze e accademie (Galileo scrive e polemizza con lettere pubbliche), lezioni pubbliche (Faraday alla Royal Institution), brevetti e prototipi (Edison e Tesla), manuali d’arte e d’officio (Leonardo). Esistevano riviste sin dal Seicento, ma l’habitus della carriera accademica fondata su indicatori nasce davvero nel XX-XXI secolo per tre ragioni:
- l’esplosione del numero di ricercatori e la necessità di criteri comparabili;
- l’industrializzazione dell’editoria scientifica (riviste, peer review standardizzata, indicizzazione);
- la competizione per fondi e posizioni che ha trasformato la pubblicazione in valuta di scambio.
Questa infrastruttura ha utilità (filtri di qualità, tracciabilità), ma quando diventa totale scambia la verità con la visibilità.
I “grandi” non pubblicavano per la vetrina: producevano mondo
Se guardiamo la genealogia dell’impatto, la traiettoria è chiara:
- Trattati che rifondano campi: un singolo libro può valere una carriera di papers quando cambia il paradigma e l’uso del mondo.
- Dimostrazioni pubbliche e prototipi: l’elettricità di Faraday o le macchine di Tesla convincono perché funzionano davanti alle persone.
- Brevetti e standard: la conoscenza diventa uso quando si incarna in procedure, strumenti, norme tecniche che altri possono adottare.
- Didattica e divulgazione: rendere accessibile ciò che è complesso è un’opera di bene civile, non una semplificazione vile.
In tutti questi casi il criterio non è “dove ho pubblicato”, ma chi è cambiato grazie a quella conoscenza: contadini che coltivano meglio, medici che curano meglio, artigiani che lavorano meglio, studenti che capiscono di più.
Perché “essere utili” non è anti-accademico ma iper-scientifico
La scienza è un bene relazionale: esiste davvero solo quando è condivisa, replicata, messa in opera. Sostituire la gara di citazioni con la gara di vita migliorata non è populismo: è riportare la ricerca alla sua natura di pratica pubblica della verità. L’utilità non degrada la teoria, la svela: una teoria è buona se regge alla prova del mondo e restituisce valore a chi la usa.
Cinque criteri concreti per misurare l’impatto (al posto del feticcio bibliometrico)
- Adozione reale: quante persone/enti usano quel metodo, quel software, quel protocollo?
- Effetto su salute e ambiente: malattie evitate, errori ridotti, emissioni risparmiate, ore-uomo e kWh tagliati.
- Trasferibilità: quante comunità diverse hanno potuto riutilizzare il risultato senza “permesso”?
- Accessibilità: documentazione chiara, licenze e costi che non escludono i più deboli.
- Capacità generativa: il lavoro ha aperto strade, formato persone, creato altre innovazioni?
Questi criteri portano il focus da quanto parlo a quanto trasformo.
Due modelli operativi per la scienza “utile al prossimo”
1. Scienza orientata al bene comune (RRI 2.0): definire obiettivi con le comunità (ospedali, scuole, comuni), co-progettare soluzioni, validare in campo, rilasciare risultati in formati riutilizzabili (manuali, kit, API, librerie).
2. Living labs e “Scienziati di Strada”: portare laboratorio, strumenti e competenze dove stanno i problemi; testare iterativamente, formare sul posto, lasciare competenze e strumenti in eredità. Qui l’articolo nasce dopo che la cosa funziona, non prima.
Le obiezioni (e le risposte)
- “Ma senza pubblicazioni, come garantiamo qualità?”
Con replicabilità pubblica, protocolli aperti, dataset verificabili, audit indipendenti: la qualità si difende meglio quando chiunque può rifare l’esperimento. - “Le carriere richiedono numeri oggettivi.”
Cambiamo i numeri: KPI di adozione, standard recepiti, benefici misurabili, progetti portati in produzione. Contano anche i papers, ma non solo. - “L’utilità rischia il tecnicismo.”
È l’opposto: utilità implica etica (chi beneficia? chi resta indietro?), linguaggio comprensibile, responsabilità.
Etica dell’utilità: beneficenza, giustizia, generazioni future
Essere utili è una triade:
- Beneficenza: ridurre sofferenza e sprechi informativi;
- Giustizia: distribuire accesso e competenze, non solo prodotti;
- Responsabilità intergenerazionale: soluzioni che non scaricano costi su chi verrà dopo (energia, privacy, ambiente).
Cosa cambia per uno scienziato oggi (checklist operativa)
- Scrivere per l’uso: guide, esempi, video brevi, “ricette” operative accanto al paper.
- Rilasciare strumenti: codice, modelli, dataset con licenze chiare; issue tracker per chi adotta.
- Misurare impatti: una dashboard che conteggi adozioni, errori evitati, kWh risparmiati, persone formate.
- Co-progettare: pazienti, insegnanti, tecnici e amministratori nel team sin dall’inizio.
- Documentare fallimenti: ciò che non funziona è un dono alla collettività, evita sprechi.
- Pubblicare sì, ma bene: quando serve, su riviste solide o in preprint con materiali replicabili; niente “salami slicing”.
Dal prestigio alla responsabilità
La questione delle pubblicazioni è largamente nostra, figlia della modernità amministrata. I grandi del passato non inseguivano impact factor: inventavano mondo, creando nuove prospettive e sfide per l'umanità. Se riportiamo la scienza al suo scopo — generare bene concreto, conoscenza condivisa e dignità per chi la usa — allora le pubblicazioni tornano al loro posto: strumenti tra gli strumenti, utilizzati per comunicare idee e innovazioni, piuttosto che per accumulare punti in una graduatoria.
La misura di una grande mente non è la bibliografia; è la traccia che lascia nel cammino degli altri, la capacità di ispirare e guidare, trasformando la curiosità in azione e portando alla luce verità che possono migliorare la vita delle persone. Inoltre, è fondamentale ricordare che il vero progresso si misura anche nella qualità delle interazioni e nella capacità di divulgare conoscenza, piuttosto che semplicemente nella quantità di lavori pubblicati.

