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Innovazione Hi Tech sanitarie, troppa finzione e molto effetto wow, ma i risultati ?

Di Nicolini Massimiliano

Nel cuore della trasformazione digitale della sanità si nasconde un paradosso inquietante: mentre si parla di innovazione, efficienza e progresso, milioni di euro di denaro pubblico vengono investiti in soluzioni tecnologiche prive di reale utilità, spesso vendute con il solo scopo di impressionare piuttosto che curare. Il problema non risiede tanto nella tecnologia in sé, quanto nell’assenza di competenze tecniche all’interno delle strutture sanitarie, che si traduce in una fiducia cieca verso promesse non verificate e strumenti scenografici privi di impatto clinico effettivo.

Basta farsi un giro su LinkedIn o partecipare a uno dei tanti seminari medici che ogni settimana si tengono in Italia per assistere a un fenomeno ormai dilagante: la comparsa improvvisa di “nuovi Leonardo da Vinci”, presentati come visionari dell’innovazione sanitaria. Personaggi che promettono soluzioni rivoluzionarie, talvolta con toni messianici, e che arrivano a proporre dispositivi o applicazioni che più che alla medicina ricordano pratiche da stregoneria digitale. Dietro la facciata tecnologica, però, si celano spesso brutte copie di sperimentazioni altrui o miraggi terapeutici fondati sul nulla.

Accanto a questi moderni profeti dell’hi-tech, spuntano ogni mese veri e propri cloni autoproclamati di Steve Jobs, con turtleneck e pitch motivazionali annessi. Ma il loro scopo non è cambiare il mondo: è semplicemente drenare fondi. Creano start-up dal nome anglosassone, raccolgono finanziamenti pubblici o semi-pubblici, spendono tutto in campagne su social network, influencer, scenografie accattivanti e qualche ufficio in coworking di lusso, e infine, dopo aver bruciato l’intero capitale in fumo mediatico, spariscono. Nessun prodotto reale, nessun servizio utile, nessuna ricaduta concreta sulla vita dei cittadini, tanto meno dei pazienti. Rimane solo il loro nome in un lungo elenco di società in liquidazione, che si dissolve insieme alla memoria delle promesse mancate.

A rendere ancora più preoccupante questo scenario è il fatto che la maggior parte di queste “innovazioni” digitali in ambito sanitario viene progettata e realizzata da tecnici informatici senza alcuna preparazione clinica. Basta conoscere un linguaggio di programmazione alla moda, magari qualche nozione di Unity o Unreal Engine per realizzare ambienti 3D, e il gioco è fatto: nasce l’ennesima piattaforma o app immersiva che promette riabilitazioni miracolose, simulazioni chirurgiche “realistiche” o assistenze virtuali “intelligenti”. Ma dietro non c’è alcuna validazione scientifica, nessuna supervisione medica, nessuna comprensione del corpo umano, della patologia o della relazione terapeutica. Il codice prende il posto della conoscenza, e l’interfaccia grafica diventa più importante del beneficio per il paziente.

Come se non bastasse, in questo ecosistema distorto iniziano a circolare anche premi fasulli, riconoscimenti autoreferenziali assegnati senza alcuna base scientifica, senza dati di efficacia clinica e senza alcuna peer review. Basta l’interesse di un direttore compiacente, la necessità di un ospedale di apparire “al passo coi tempi” o di una fiera tecnologica in cerca di titoli sensazionalistici per proclamare una certa applicazione “tra le migliori al mondo”. Ma nessuna sperimentazione reale, nessun dato statistico pubblicato, nessuna misurazione degli outcome clinici. È il trionfo dell’apparenza sulla sostanza. Eppure, chi lavora davvero nella sanità sa bene che servono anni di studio, raccolta dati, confronti clinici e verifiche indipendenti per poter anche solo ipotizzare che una tecnologia abbia un impatto positivo su diagnosi, terapia o qualità della vita.

Le aziende che si occupano di vendere queste tecnologie puntano deliberatamente sull’asimmetria informativa: sanno che, dall’altra parte, mancano figure formate in ingegneria clinica, data science sanitaria o etica tecnologica. Mancano, soprattutto, protocolli di validazione indipendenti che impongano una revisione tecnica seria prima dell’acquisto. In questo vuoto, trovano spazio progetti che in altri settori non verrebbero mai approvati: realtà virtuali che non curano, algoritmi non trasparenti, robot da vetrina.

Il danno, però, non è solo economico. Ogni euro speso per una tecnologia inutile è un euro sottratto a un presidio territoriale, a un’attrezzatura salvavita, a un’assunzione necessaria. È un doppio tradimento: verso la fiducia del cittadino e verso la missione pubblica della sanità. La spettacolarizzazione dell’innovazione ha sostituito la valutazione dell’efficacia.

Serve un cambiamento radicale. Serve che le strutture sanitarie si dotino di competenze interne in grado di valutare il software e l’hardware con il rigore della scienza e l’etica della medicina. Serve che i processi decisionali vengano affiancati da esperti indipendenti, che sappiano distinguere tra reale progresso e fumo digitale. Ma soprattutto serve una cultura della responsabilità: chi sceglie come investire soldi pubblici deve essere formato, consapevole e, in ultima istanza, responsabile.

L’innovazione non è un palcoscenico per illusionisti né un videogioco da mostrare nelle conferenze stampa. È uno strumento potente e delicato che, se mal gestito, può generare più danni che benefici. E oggi, in troppi casi, è proprio l’ignoranza tecnologica a essere il vero virus da debellare.